Avremo una pensione?

La riforma delle pensioni è sempre stato un tema scottante che ha portato i Governi a compiere scelte difficili, creando proteste con grandi mobilitazioni popolari. A poco tempo dalla pesante legge 214/2011, alcune forze politiche ne propongono l’abrogazione con conseguente riapertura del dibattito sulla correzione del sistema pensionistico obbligatorio italiano.
La materia è complicata. Il problema -come sempre- monetario: per non far “saltare” il sistema, in linea teorica è necessario garantire l’equilibrio tra i contributi entranti e le pensioni erogate, essendo il nostro un sistema senza copertura patrimoniale delle obbligazioni derivanti dalle prestazioni previdenziali promesse, ovvero, cosiddetto a ripartizione. Questo in linea teorica, infatti a causa della mancanza di un equilibrio del sistema, ahimé è persistente un costante ricorso al finanziamento delle pensioni con la fiscalità generale.
La legge Fornero (214/2011) ha riformato strutturalmente il sistema, introducendo importanti novità. Tale norma, lo ricordiamo bene, nasce in un contesto di grande difficoltà finanziaria del nostro paese, in un periodo in cui si sono rese necessarie correzioni significative delle entrate e delle uscite dello Stato. La manovra è stata impopolare e drastica, forse non a caso elaborata dal Governo tecnico presieduto dal prof. Monti. Nonostante l’impopolarità, personalmente credo che la riforma abbia intrapreso la giusta direzione, sicuramente quella necessaria in una situazione emergenziale. Senza entrare nel dettaglio, causa dell’impopolarità è stato innanzitutto l’innalzamento dell’età per il pensionamento di vecchiaia che ha visto incrementi elevati soprattutto per le donne. Credo che tale innalzamento sia stato necessario, in un paese che conta un’aspettativa di vita sempre più alta e che ha una forte disoccupazione: andava diminuita la spesa. Tuttavia credo che per il futuro vada presa in considerazione una modalità efficace di differenziazione di età in cui si acquisisce il diritto al trattamento pensionistico sulla base dell’attività lavorativa svolta, pur rendendomi conto che ciò non sia semplice: vi sono lavori molto usuranti, altri meno.
Certamente un elemento negativo dell’innalzamento dell’età pensionabile sta nel fatto che ritardare l’uscita dal mondo del lavoro significa precludere l’ingresso a nuove generazioni, non favorendo quindi l’occupazione. Da notar bene, in virtù del nostro sistema a ripartizione, vi è un motivo in più per creare occupazione: si deve avere il maggior numero di lavoratori, che come tali contribuiscono al versamento dei contributi previdenziali per l’erogazione dei trattamenti correnti in modo da creare quell’equilibrio sopra menzionato.

Grave effetto collaterale dell’innalzamento di età è stato il problema degli esodati, indegno per un paese civile e che è stato la conseguenza più spiacevole di questa manovra.

Un’altra importante novità è stata il passaggio a far data dal 1 gennaio 2012 al metodo di calcolo contributivo della pensione per tutti, metodo che fa riferimento ai contributi effettivamente versati dal lavoratore. Credo che il passaggio al metodo di calcolo contributivo restituisca al nostro paese un po’ di equità sociale, cosa che forse non c’è mai stata nelle politiche in tema di previdenza. Ciò comporterà tagli alla spesa, ma c’è da dire che la sostenibilità fiscale del nostro sistema pensionistico sarà comunque per molto tempo condizionata dallo smaltimento del debito previdenziale latente.
Tutti i lavoratori di oggi e soprattutto quelli che non erano lontani dalla pensione all’entrata in vigore della norma, contestano (legittimamente) di dover passare più anni a lavoro. Ma chi si lamenta oggi, una pensione comunque ce l’avrà. Oltre la grave questione degli esodati, è bene constatare la gravità di una politica scellerata attuata in passato in tema pensioni, che nel nostro paese è andata avanti per troppi anni. Di queste politiche oggi ne pagano il caro prezzo coloro che hanno la sola responsabilità di esser nati qualche decennio dopo, i quali se avranno una pensione sarà proporzionalmente molto più bassa rispetto le precedenti generazioni, anche a causa della diffusa precarietà del lavoro.
Scandalose sono state le cosiddette baby pensioni per il settore pubblico: anni addietro abbiamo avuto lavoratori che hanno acquisito il diritto al trattamento pensionistico a 35 anni, con pochissimi contributi e che hanno incassato pensioni per importi triplicati rispetto ai contributi versati; abbiamo avuto il pozzo del sistema di calcolo retributivo che ha concesso decenni di regali a tutti i lavoratori e poi, il tema ancor oggi oggetto di dibattito delle cosiddette “pensioni d’oro”, trattamenti anche di svariate decine di migliaia di euro mensili che non hanno nessuna giustificazione con i contributi versati e che la Corte costituzionale con sentenza n. 116/2013 ha impedito di ridimensionare tramite il cosiddetto contributo di solidarietà. Tutto questo è a carico della collettività e colpisce i soliti noti, i più deboli e i giovani. I regali concessi dal sistema retributivo e dalle baby pensioni sono difficili da mandar giù per chi oggi ne paga le conseguenze e per chi le pagherà ancor più in futuro, ovvero chi si affaccia oggi sul mondo del lavoro. Noi avremo sulle spalle il peso di dover lavorare sempre più, a fronte di pensioni sempre più basse, mentre c’è chi si è riempito e ancora si riempie le tasche a spese dello Stato, della collettività: questa è una delle responsabilità sociali più gravi della nostra storia politica.